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    10th Edition - 31 October - Lingotto Fiere

mercoledì 23 aprile 2014

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Released this month, not in playlist :-) / 17

Si sa molto poco della vita privata di Joshua Leary, dei suoi gusti musicali, di chi lo ha ispirato e soprattutto di come sia uscito dall'anonimato. Durante un'intervista di Pitchfork ammette di non saperlo neppure lui. Si è limitato a produrre qualche canzone con il suo campionatore e a mandarla ad alcuni amici. E poi gli amici ad altri amici. Poi qualcuno si prende la briga di caricarle su internet e il gioco è fatto: la Tri Angle Records gli propone un contratto. Lui, sbarbatello, con il viso ancora da ragazzino, si ritrova a lavorare per una delle etichette più all'avanguardia del momento. 


Lo incontro a Torino in occasione del suo live per Club2Club 2013. Gioca nei corridoi della Fondazione Sandretto Rebaudengo, prendendo la rincorsa e lasciandosi trasportare dal suo trolley. Nessuno lo prende sul serio finché non si mette sui controlli. Al contrario di molti non porta un banale dj set: i grandi con il nome già affermato fanno dj set. Lui fa un live incredibile. Si diverte, sorride, gioca col campionatore, ma sforna delle tracce da pelle d'oca.  

A marzo 2014 esce il suo nuovo EP, sempre per Tri Angle Records: Waterfall. Già in streaming sul suo sito ufficiale (www.evianchrist.com), è composto da quattro tracce di una maturità incredibile rispetto all'EP precedente. 


Le canzoni risultano di una complessità molto superiore rispetto a quelle precedenti. Lo stile è differente: i synth sono prepotenti, la cassa immensa, i ritmi spezzati e singhiozzanti. 
Sembra il fratellino minore di Rustie. 
Si sente fortissima l'influenza trap, della dubstep, con qualche sprazzo di glitch, in un cocktail esplosivo con un vago sapore di Kuedo e Hudson Mohawke. 


Non si può decisamente definire un EP dai suoni allegri e giocondi come alcuni lavori di Hudson però. Le sonorità sono cupe e incisive. I suoni sono duri, la cassa è profonda, il rullante schiocca ed il tutto è infine "sporcato" da synth persistenti.
 Tutti ingredienti per un disco perfetto e monolitico.


lunedì 7 aprile 2014

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Released this month, not in playlist :-) / 16


Todd Terje, il baffuto (ormai barbuto) sovrano norvegese della disco, esordisce in questi giorni con la sua prima, vera prova di maturità.
Intendiamoci, Todd Terje negli ultimi 2-3 anni ha prodotto alcuni tra i più solidi, coinvolgenti e apprezzati EP dell'intero panorama musicale.
Tuttavia per la prima volta con il suo "It's Album Time" il buon Todd esce dallo schema a lui caro per produrre il primo LP della sua vita.


Ammetto di essere di parte.
Di essere ancora ai primi ascolti.
E di non riuscire a trattenermi dal dire che questo é un album che dovrete consumare, riascoltare, assaporare ogni singolo minuto.
Un disco splendido.
Prima di tutto, questo lavoro rappresenta la migliore risposta possibile a chi sostiene che RAM dei Daft Punk sia un album che scava nel passato rielaborandolo e riproponendolo in chiave medio-moderna-accettabile.
I francesini, come Hollande, non hanno realmente convinto nessuno. 
Sì, bel disco, se non avesse avuto l'elmetto davanti probabilmente avrebbe venduto qualche (vari cifre a più zeri) di copie in meno.
Todd Terje invece, assolutamente NON neofita della scena, riparte effettivamente dalle origini della disco per esplorarlo e rivisitarlo in ogni suo aspetto per proiettarlo e lanciarlo verso orizzonti ancora inesplorati, accelerati e convulsi.
Il tutto in un tripudio anni 70-80, perfetto sottofondo per qualsiasi commedia italiana con inquadrature dall'alto, strade semideserte, inseguimenti tra 126 e radiocronache di Sandro Ciotti la domenica pomeriggio nei bar.
Sole, occhiali ambrati, camicie aperte.


Alcuni altri brevissimi cenni, non potendo le parole raccontare musica e sensazioni: 


Delorean Dynamite ripercorre né più né meno lo schema di alcuni altri treni del ragazzo, come Strandbar ed Inspector Norse. Riempipista dal sapore discretamente paraculo che vorresti sentire ad ogni festa.


Johnny And Mary, ossia emozioni al rallentatore intorno ai 60 bpm. Al primo impatto, la voce di Bryan Ferry sconvolge letteralmente l'architetture e le aspettative di chi si aspettava un disco prettamente da pista, senza momenti di profonda ed autentica intimità. 
Non radiofonica come molte altre tracce elettroniche nel recente passato hanno raggiunto vette abbastanza inaspettate (leggisi Sky And Sand - PK), ma allo stesso modo un autentico gioiello.
In rotazione fissa sul mio iPod per i prossimi 7-8 mesi.

Per chiudere, tornando al confronto con RAM, il passaggio che realmente fa capire la differenza tra chi finge e chi c'é dentro fino alle ginocchia é rappresentato da Alfonso Muskedunder.

(Stramaledite il fottuto YouTube che non mi da l'anteprima, dovrete cercarvela)

Questa traccia da sola vale l'intero disco dei Daft Punk: più credibile, più 70's, più groovy, nessun retrogusto di plastica, nessun Pharrel - vendo facile - Williams.
Qualora i mascherati decidano di riproporre un disco come RAM, possono tranquillamente ripartire da qui.
Per adesso, Todd Terje for the win.







giovedì 3 aprile 2014

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24HSP#26 - Mansarda crew

A Torino ci sono due cose speciali nel mondo della notte:
c'è una nuova realtà in crescita che non tutti ancora conoscono e c'è una solida istituzione che aldilà di tutto ciò che di negativo sta succedendo, ancora resiste.
La prima si chiama Outcast ed è il nuovo Venerdì sabaudo per eccellenza che vede come protagonisti (resident) gli autori dell'ultimo podcast "only for smokers", l'altra è il Doctor Sax, after storico nel cuore di tutti i clubber cittadini e non.
Queste due cose sono quelle che di più accomunano i Mansarda crew, il loro sound viene da lì, sappiatelo.

Enjoy.






martedì 1 aprile 2014

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The Godfather of House Music


Ore 6.30 del mattino, giro di ricognizione mattutino tra alcuni siti musicali di riferimento.
Appare il suo faccione bello, sereno, pacioso e sorridente.
Sotto le tre lettere più inflazionate dell'intero universo WWW.
R.I.P.

Colleghi le informazioni acquisite, ti rendi realmente conto di quanto è successo.
E se sei entrato almeno una volta in un club, non puoi non sentire di colpo un enorme vuoto dentro.
Come puoi descrivere Frankie Knuckles a uno che non ha mai sentito il suo nome?
A chi non ha abusato delle sue produzioni, ripetute migliaia di volte, ascoltate, immortalate a fotogrammi indelebili nella memoria?

Avete presente l'espressione iper inflazionata "20 anni avanti?"
Niente può descrivere meglio the Godfather. 
Anzi, potremmo anche dire tranquillamente 30.
Anno di leva 1955, figlio naturale del Bronx, figlio adottivo di Chicago, cresciuto a pane, jazz e black music.
Amico d'infanzia di Larry Levan (se anche questo nome non ti dice nulla, na sbirciatina a Wikipedia potrebbe aiutare), compagno di vita artistica e di consolle.

Un'intelligenza avanguardistica, una capacità unica di adattare l'estetica dell'arte al  suono.
Primo esempio: tra i primi, se non il primo, a capire l'importanza del mixaggio nei club, l'importanza del creare quel fiume in piena di emozioni e colori tra il dj e la pista.
Secondo esempio: qualsiasi sua traccia è unica ed essenziale. Un insieme di scorci, di pennellate inimitabili, da cui tutti hanno attinto, ma che nessuno ad oggi è riuscito ad eguagliare nella sua importanza.
Rileggere l'elenco dei locali in cui ha lavorato dagli anni '70 ad oggi equivale a ripercorrere lunghi tratti dell'evoluzione della musica house.
Talmente importante da vedersi intitolata la strada del Warehouse a Chicago.
Nell'olimpo dei più rivoluzionari riferimenti culturali ed artistici del Secolo Breve.
Al pari di John Lennon.
Al pari di Andy Warhol. 
Signori e signori, semplicemente Frankie Knuckles.